La politicità sociale come nuova frontiera della politica

di Pino Polistena (*)

Ad Alberto Catellani, indimenticato amico, ricordando i nostri discorsi sulle forme politiche

Abstract
Definizione di “politicità sociale” intesa come ingrediente vitale della democrazia. Mancanza di attenzione e teorizzazione di questo concetto identificato erroneamente con il semplice voto. I sistemi occidentali si sono strutturati in modo da inibire lo sviluppo della politicità sociale.
Descrizione di tre meccanismi o dispositivi che generano patologie proprio perché bloccano lo sviluppo di una adeguata politicità sociale. Tali meccanismi rendono instabili i sistemi politici occidentali.
Le aree più importanti che possono sviluppare la politicità sociale riguardano il partito, la scuola e i media. Queste tre aree hanno bisogno di essere riformate perché la loro attuale struttura, non solo in Italia ma in tutto l’occidente, comprime la politicità sociale. In particolare il “partito” assume silenziosamente una struttura ibrida e tendenzialmente schizofrenica mai riconosciuta e indagata dalla teoria diventando così l’elemento più ostile per la creazione di una politica fisiologica.

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1 - Introduzione
L’espressione “politicità sociale”, che non esiste nel lessico filosofico e politologico, indica il grado di diffusione di coscienza, strumenti e forme politiche presenti nella società civile intesa come sfera distinta dai luoghi statali o sovrastatali ovvero dalle istituzioni che hanno il potere di prendere decisioni per tutti.
Si tratta di un concetto che non è emerso a causa di una serie di mistificazioni che riguardano la genetica del “moderno” (ossia il modo in cui si sono costituite le forme politiche moderne e specialmente i partiti); l’argomento dunque è molto vasto e merita analisi più approfondite. In questa sede mi limiterò ad un compendio. (1)

Comincio col dire che la “politicità sociale” acquista significato nell’epoca moderna perché solo a partire da questa epoca la sfera sociale, identificata con le varie accezioni della parola “popolo”, diventa rilevante favorendo così l’affermazione delle teorie e delle pratiche liberal-democratiche le quali attribuiscono una funzione politica alla società civile. Nel mondo antico la politica riguardava la sfera del governo (2) e il coinvolgimento della sfera civile o del popolo, che pure si era concretizzato in alcune aree, era marginale o fortemente contestato. Le cose cambiano nei secoli tardomoderni quando si afferma il mito democratico attraverso lo spostamento della sovranità dalla sfera delle istituzioni del potere a quella del popolo che adesso può agire
politicamente: le modalità con cui si esplica questo “agire” indicano la presenza, la natura e il livello della politicità sociale. Semplificando possiamo dire che la “politicità sociale” riguarda l’attività politica dei cittadini in quanto tali mentre la “politicità istituzionale” riguarda l’attività dello stato o delle istituzioni che prendono decisioni per tutti.

La democrazia, in tutte le accezioni che vengono conferite a questo vocabolo, implica il coinvolgimento politico della sfera designata dalle nozioni di gente-popolo-società-cittadinanza. A questa sfera viene assegnata una funzione politica che si concretizza nel potere di designazione (elezione) dei “governanti”. La narrazione dominante dice infatti che i cittadini scelgono, con l’atto politico del voto, i loro rappresentanti. In realtà la funzione politica del popolo, ossia la sua “politicità”, non ha mai avuto una teorizzazione e un’attenzione adeguate e non sono stati mai individuati per essa parametri di riconoscimento o di monitoraggio. In altre parole il problema della politicità sociale non è mai emerso perché il diritto di votare è stato considerato
condizione sufficiente: se esiste questo diritto allora esiste una politicità sociale. Si tratta di un atteggiamento grossolano perché il suffragio universale, sebbene sia uno dei grandi diritti della modernità, acquistato attraverso una lunga epopea, non può esaurire tutta la politicità sociale perché non dice nulla sul livello e sulla qualità dei processi che portano al voto il quale è solo il momento finale di un percorso, mentre la politicità sociale si definisce attraverso tutto il percorso. La teoria politica non ha dedicato molte analisi ai processi che determinano il voto ed è per questo che possiamo affermare che la politicità sociale costituisce un problema serio perché è ovunque un ambito non sviluppato, sia a livello teorico che a livello pratico. Lo vediamo attraverso l’aumento del disinteresse per le elezioni e per le questioni istituzionali: questo disinteresse rappresenta la crisi delle ambizioni democratiche del mondo moderno perché la mancanza di una concreta politicità sociale impedisce alla società civile di controllare efficacemente le istituzioni dello stato e renderle più funzionali attraverso l’utilizzo, in chiave politica, delle immense risorse umane di cui è dotata. Una politicità sociale asfittica, come quella attuale, impoverisce i sistemi politici rendendoli altrettanto asfittici e nel lungo periodo crea giganteschi problemi all’intera società. Per intendere il senso e il peso di questo problema è il caso di ricordare che la società civile si esprime in genere con atti non politici (atti economici, sociali, culturali, affettivi ecc.) mentre la sua “politicità” non è offerta gratuitamente perché implica uno sforzo culturale, intellettuale e umano di chi, meritoriamente, se ne occupa. (3)

Dunque l’accezione grossolana e mistificante, assunta dalla narrazione ufficiale, implica l’idea che se le elezioni sono “libere” e se “tutti” possono votare, la società civile ha raggiunto un livello ottimale di democrazia e il problema di una politicità sociale non si pone. L’esistenza di libere elezioni e di un pluralismo partitico sarebbero la condizione, ma anche la prova, della presenza di una politicità sociale. I meccanismi reali ci raccontano però un’altra storia e mostrano un grande vulnus nel sistema che né la filosofia né la scienza politica, hanno saputo individuare.

2- Il principale meccanismo mistificante
Cerchiamo allora di comprendere i reali fattori che entrano in gioco e che impediscono il corretto sviluppo della politicità sociale.
La formazione dello stato moderno, fenomeno cruciale degli ultimi secoli, con la connessa creazione di immense burocrazie, ha reso necessaria la distinzione tra la sfera statale e quella civile, distinzione che non si pose e non fu chiara prima della fine del settecento (4) E’ infatti necessario distinguere l’ambito delle decisioni imperative, cioè delle istituzioni che hanno il potere (e il dovere) di prendere decisioni per tutti, dalle gigantesche società civili sottostanti: si tratta di ambiti diversi, con collegamenti complessi e definiti in modo piuttosto improprio come “stato” e “società”. In epoca moderna ad uno di questi due poli, cioè alla sfera della società civile, è stata conferita la sovranità ma non il potere di prendere decisioni per tutti che è il tipico potere di istituzioni specifiche dello stato.

La democrazia implica una “politicità” della sfera sociale concepita da un lato come azione del sovrano (popolo) e dall’altro come osmosi e controllo della sfera decisionale in cui si concentra un potere pericoloso definito nel passato col termine “leviatanico”. Tuttavia, come abbiamo visto, questa politicità non viene attivata a causa di una amplificazione mistificante delle istituzioni che dovrebbero garantirla e cioè le elezioni libere e i partiti;la gravità di questa situazione consiste proprio nel
fatto che esiste una copertura mistificante di istituzioni che nascono effettivamente come strumenti di politicità. In altre parole la politicità sociale è affossata da chi dovrebbe svilupparla. Dobbiamo capire come questo possa accadere! Il principale elemento mistificatorio è annidato nella struttura del partito che, a tutte le latitudini e indipendentemente dai profili ideologico-programmatici, si dichiara e si pone come “esterno” alla sfera dello stato (quindi “medio” e “sociale”) senza esserlo nella realtà.
Si tratta di una vera “finzione” passata sotto silenzio perché la fondamentale separazione tra stato\società non viene applicata ai partiti per cui i loro gruppi dirigenti assumono ruoli statali pretendendo, nel contempo, di mantenere ruoli apicali dentro il
partito di provenienza. In questo modo la politicità sociale viene silenziosamente mutilata senza essere rinnegata. La mistificazione sta nel fatto che un organo della società civile organizzata, cioè il partito, viene surrettiziamente occupato da persone fisiche che rappresentano il mondo dello stato. Non si tratta di un organo qualsiasi: il partito rappresenta lo strumento cruciale con cui la società civile si assume il compito, attraverso le elezioni, di “riempire”, con persone fisiche, le istituzioni dello stato; per questo i partiti sono essenziali per il sistema politico democratico. Se la società civile, che si organizza in partito, non sarà libera di valutare e giudicare, perché quello strumento (il partito) è presidiato da persone che stanno già nelle istituzioni, viene a cadere un pilastro della politicità sociale e un momento cruciale del percorso democratico verrà a mancare. (5) Il danno è grave ma poco evidente e sembra incredibile che questa decisiva svista si sia prodotta ma se si conoscono tutti i dispositivi del sistema e specialmente la genetica storica del partito, questo grave fenomeno può essere spiegato. In ogni caso si tratta di un campo scarsamente indagato tanto è vero che oggi non esiste una coscienza di questo fatto e quindi non esiste alcun tentativo di contrastarlo: in altre parole non troviamo analisi sulla condizione ibrida dei partiti moderni né studi sulle conseguenze delle pretese del partito di essere insieme “stato” e “società civile”. La narrazione dominante afferma che sono i cittadini-sovrani a scegliere i loro rappresentanti attraverso le elezioni ma non dice che i cittadini che formano, decidono e presentano le liste elettorali abitano già le istituzioni dello stato e non provengono dalla società civile. I partiti non sono più enti medi sociali ma pezzi di stato che usano una maschera sociale.

Per questo motivo Gaetano Mosca aveva affermato che non sono i cittadini a scegliere ma i politici a farsi scegliere. Se non si coglie questo meccanismo attraverso un’analisi empirica della struttura partitica, non si riuscirà a comprendere il tallone d’Achille presente nei sistemi politici moderni e la patologia che ne discende. Per coglierlo però occorre rivedere il rapporto tra società e stato e individuare alcuni dispositivi che, associati tra loro, costituiscono le forme in vigore le quali così come sono non possono garantire un sistema politico funzionante. Riformulo questa asserzione in modo più chiaro: i sistemi politici moderni non possono funzionare correttamente a causa delle “forme” che li costituiscono.
Cominciamo con la situazione schizofrenica dei partiti: essi, per una parte, si dichiarano e restano formalmente esterni al complesso istituzionale dello stato ma per la parte più significativa e potente, quella di chi li dirige, entrano pienamente nelle istituzioni pubbliche creando una situazione ibrida che altera la normale dialettica tra gli ambiti, cioè tra la società e lo stato. La complessità di questi processi, unita alle sottostanti, e spesso oscure, dinamiche di potere, costituisce un elemento della loro incomprensione. Per questo vanno analizzati con maggiore accuratezza.

Le elezioni consentono a gruppi di cittadini, riuniti in partiti, di passare il confine che distingue la società civile dallo stato. (6) Tali cittadini, eletti con un atto politico del “popolo”, vengono chiamati genericamente “governanti” ma, come abbiamo detto, una volta entrati nelle istituzioni dello stato essi mantengono il piede nei partiti di provenienza con ruoli direttivi. Questo cumulo di funzioni determina la perdita della fisiologicità del sistema perché il doppio ruolo annulla di fatto il flusso di politicità sociale che va dal partito allo stato: un pezzo dell’ingranaggio non funziona perché non è più “socialità” ma “statalità” ma si tratta di una “statalità” che si presenta come “socialità” ed è qui che si sviluppa una pesante mistificazione di cui soffrono tutti i sistemi politici. In questo modo le istituzioni non interagiscono col resto della società ma si separano da essa perché il canale principale che determina quel flusso viene ostruito dalla presenza di elementi che di fatto non appartengono più alla società civile (7). Controllori e controllati si identificano. In altre parole uno dei cardini della democrazia, cioè la funzione politica dei cittadini, viene menomato e il sistema perde coerenza con le conseguenze che ne derivano prima tra cui, il graduale allontanamento, (empiricamente rilevabile), dei partiti dalla società di cui dovrebbero far parte. In questo contesto le elezioni stesse, anche se sono libere ed esenti da brogli, perdono significato perché non sono più espressione della società civile ma strumenti di parti dello stato che trovano nei partiti la loro maschera sociale.
Ovviamente le persone fisiche che guidano i partiti non si occupano e non evidenziano questo problema. Essi ritengono di poter cumulare entrambi i ruoli che considerano identici: “faccio politica sia nel partito che nelle istituzioni statali, tanto le idee e i progetti sono gli stessi. Posso quindi dirigere un partito mentre faccio il parlamentare o il ministro!”. La contraddizione di rappresentare insieme la parte del partito e il tutto dell’istituzione non si vede o si copre abilmente come si copre anche la difficoltà pratica di svolgere contemporaneamente funzioni così impegnative. (8) Manca una fondamentale acquisizione culturale: la differenza di forma tra il partito, che sta in un universo plurale e sociale, e l’istituzione statale che è uno strumento unico a disposizione di tutta la società. E’ del tutto folle pretendere che singole persone fisiche possano unificare questi due momenti e tenerli insieme ma questa è la normalità per cui non si è mai indagato sulle conseguenze di questa situazione la quale dà luogo ad un altro fenomeno che dobbiamo studiare attentamente: il professionismo politico. Tutte queste persone infatti considerano la politica come una professione, attraverso l’equivoco della professionalità (9) e intendono svolgere questa professione possibilmente per tutta la vita, questo pone un problema di natura pratica: per essere politici di professione occorre cumulare il ruolo partitico e quello statale cioè mantenere il controllo del partito. Si tratta di un accorgimento pratico, infatti una persona fisica, che aspira a diventare politico di professione, sa che deve essere eletto e poi rieletto, ma per ottenere questo risultato occorre attivare due differenti processi, entrambi complessi e difficili: produrre consenso, attraverso una comunicazione indirizzata ai cittadini che votano, e mantenere un ruolo apicale, o comunque importante, all’interno del partito. Si tratta di due operazioni vitali per i politici che non hanno nulla a che vedere con il lavoro istituzionale che devono svolgere, il quale viene snaturato sensibilmente creando un persistente problema alle istituzioni e quindi all’intera società.
Le istituzioni infatti perdono “libertà” e “funzionalità” dal momento che vengono orientate (strumentalizzate) verso una funzione diversa da quella propria. In tutto il mondo dove si vota e dove esistono i partiti, il sistema è articolato in questo modo patologico con differenti indici di gravità dovuti alle circostanze storiche e culturali dei vari paesi.
Un’analisi complessiva che colleghi i due processi che ho descritto non esiste. Certamente si conosce e si critica la ricerca ossessiva del consenso, che oggi viene ricercato con le tecniche più avanzate, ma non si mostra il collegamento patologico con gli altri elementi del sistema, in particolare con la formazione di un gruppo professionistico di persone che ha come unico obbiettivo quello di autoconservarsi. Che la politica non possa costituire una professione qualsiasi è un’asserzione tanto vera quanto ignorata. Non si nota infatti la singolarità di una professione siffatta che non discende da una competenza tecnica ma dai voti che si riescono a raccogliere. Tutto questo è collegato alla doppia natura del partito politico che pretende di essere sia società che stato. Questa patologica doppia natura non è stata mai identificata e descritta nonostante un’immensa letteratura che riguarda i partiti. La somma di questi fattori (professionismo politico e natura ibrida dei partiti) dal lato dello stato crea una patologica deviazione del lavoro istituzionale, dal lato del partito determina la particolare “forma” in vigore, che distrugge la sua politicità sociale perché, come abbiamo visto, le persone che lo dirigono diventano e si comportano come “stato”. Un terzo effetto di questo sistema, anch’esso inesorabile, è il rapporto innaturale che si determina tra la dimensione politica, che dipende dalle elezioni, e la strutturazione burocratica delle istituzioni fondata sulla professionalizzazione dei funzionari e sui concorsi pubblici. Diventa infatti necessario un tacito “patto scellerato” tra politici e burocrati perché i primi avranno bisogno dell’appoggio incondizionato dei secondi per guidare le istituzioni perché impegnati perennemente su altri fronti quali il controllo del proprio partito e il consenso. Questo è il binario su cui, con piccole variazioni, si muovono i sistemi politici occidentali, binario che configura una patologia dagli effetti lenti ma inesorabili: le istituzioni vengono “ingessate” perdono elasticità e assumono un forte valenza conservatrice diventando forme rigide e non strumenti al servizio dei cittadini. In un contesto simile l’istituzione viene utilizzata dai politici solo per la sezione che produce consenso e la burocrazia, già fondamentale per il funzionamento degli immensi apparati statali, acquista un potere ulteriore e un ruolo non fisiologico perché non si confronta in modo normale con la parte politica. La patologia costituita da questi tre differenti processi e dalle forme contraddittorie che ne derivano, è molto grave ma assolutamente sotto traccia perché la scienza politica non l’ha individuata. Il problema dunque è metodologico; sembra infatti che gli studiosi della materia
si siano concentrati di più sugli eventi e sui comportamenti rispetto alle forme politiche. In ogni caso questi processi, tutti rilevabili empiricamente, tolgono al partito il suo carattere più importante: quello di essere “medio” quindi fattore di politicità sociale e di democrazia. Non esiste ricerca, a quanto ne so, che abbia analizzato gli effetti della concentrazione, nelle stesse persone fisiche, di forme e ruoli così differenti. Qualche spunto contemporaneo (10) si riduce ad un’intelligente intuizione ma non tocca il problema della politicità sociale che è la reale vittima della concentrazione di quei due ruoli (partitico e statale).
La forma in vigore configura una surrettizia catastrofe democratica e un danno sociale difficilmente quantificabile (11). Perché usare toni così drammatici per descrivere questo fenomeno? Perché l’inesistenza di una reale e concreta politicità sociale rende disfunzionali i sistemi ben prima delle persone, dei comportamenti e degli eventi contingenti, eliminando il fattore di controllo più importante e con esso grandi risorse umane che non vengono destinate alla politica. Di questi processi ci sono scarse tracce nell’analisi politologica.
Esistono però corollari empirici che vari studiosi hanno evidenziato senza collegarli alla forma generale che sto descrivendo: uno di questi è l’infima considerazione che i partiti hanno nell’immaginario sociale perché il cumulo dei ruoli li mostra per quello che sono: macchine per fabbricare carriere e potere. I partiti non vengono considerati come espressione di politicità sociale perché non lo sono nei fatti. In questo modo la dialettica politica si atrofizza perché diventa gergo professionale di un ceto che occupa le istituzioni statali: i cittadini non capiscono quel gergo si amplia così il distacco, che molti autori hanno notato, tra società e stato (12). Altri autori hanno parlato di consociazione (13) una situazione molto diffusa che va collegata alla “forma” che istituisce la categoria dei politici di professione legati da comuni interessi ( ad es. la propria conservazione) che prescindono da ideologie e programmi. In altre parole esiste una “forma” non indagata che struttura un’area in cui i politici di professione e gli aspiranti tali concentrano la politica nel livello istituzionale eliminandola dalla società che resta sguarnita di strumenti politici.
Questa “forma” riguarda la struttura bifronte dei partiti (14) in tutto il mondo. Quali tipi di riforme occorre realizzare per evitare la situazione che sto descrivendo? In primo luogo occorre una coscienza che registri e prenda atto delle patologie descritte, in secondo luogo si può pensare a riforme possibili di vasta portata e di struttura fine, ispirate dalla necessità di rigenerare un’autentica politicità sociale: per realizzarle occorre diffondere presso il grande pubblico, la conoscenza dei meccanismi in vigore da alcuni secoli che hanno caratterizzato la formazione dello stato moderno.

3- Partiti di nuova concezione: medi, socializzati e costituzionalizzati
La difficoltà di concepire le riforme necessarie per un sistema politico più evoluto viene dal fatto che siamo calati in una “forma” che appare naturale e come tale non passibile di cambiamenti; non riusciamo infatti a concepire un partito obbligato per legge a restare un ente medio con una struttura operativa totalmente esterna alle istituzioni pubbliche. Come faranno infatti i dirigenti, il capo o addirittura il fondatore di un partito, a perdere ruolo e controllo della loro creatura una volta eletti, ovvero una volta entrati nelle istituzioni dello stato? La cosa appare di difficile realizzazione e per molti è del tutto assurda.
Non essendo emerso il problema della politicità sociale del suo livello, del suo valore e dei metodi di monitoraggio per controllarne la qualità, l’idea di far restare “medio” il partito cioè ancorarlo alla società con accorgimenti costituzionali non si è neanche profilata. (15) Il fatto che i partiti di destra, centro e sinistra adottino il medesimo schema non fu visto come un problema generale della politica da risolvere con l’inventività necessaria, ma come il fatto provato che le cose non possono andare diversamente. Quindi appare assurdo ciò che è necessario: salvaguardare la medietà del partito leggi di protezione auspicabilmente costituzionali volte a garantire una concreta politicità sociale.

La centralità di questo punto è tale da definire il perimetro di ciò che oggi può essere indicato come “ conservazione”: il mantenimento delle forme in vigore. Occorre ricordare che un discorso basato sulle forme non è accettato, specie dai politici di professione che competono tra loro nella ricerca di voti sulla base di contenuti particolari (tasse, giustizia, emigrazione ecc.) che sono le preoccupazioni più visibili dalla gente ma il tema delle forme, che sarebbe strategico per affrontare adeguatamente quei problemi, non viene ritenuto degno di attenzione. La riforma dei partiti è dunque quella più importante per le conseguenze ad essa associate che riguardano la politicità sociale ma è anche quella meno sentita e meno appassionante da parte dell’opinione pubblica. Un cambiamento di sistema è possibile solo se si comprende la logica che lo rende necessario. Inoltre un tale cambiamento che mira alle “forme” riguarda processi lenti, che non danno frutti immediati, non scaldano i cuori e non si percepiscono con la stessa urgenza dei problemi immediati che si vivono sulla propria pelle. Non è facile dunque cambiare sebbene non bisogna perdere le speranze anche perché se non si riuscirà a fare i cambiamenti necessari, sarà il tempo ad imporre i cambiamenti perché farà esplodere le contraddizioni presenti nel sistema ma di solito i cambiamenti imposti dal tempo sono più dolorosi perché nessuno li ha previsti o voluti. Credo che si debba fare una paziente opera culturale cominciando con la spinta per una nuova stagione costituzionale che si occupi specificamente dei partiti, ossia della società civile.
La storia costituzionale, nella sua prima stagione, prescinde completamente dalla società e quindi dalle sue forme organizzate, per essa i partiti non esistono e questo va considerato un limite originario. Nella seconda stagione, che è quella novecentesca, anche a seguito di drammatici fatti storici, una larga fetta di socialità viene inserita nel tessuto costituzionale ma essa è concentrata sui diritti. Le costituzioni non si avventurano nell’area complicata del partito perché non sono interessate alla politicità sociale. Il costituzionalismo del futuro ha un grande compito: inserire nelle sue maglie i partiti politici senza equipararli alle istituzioni dello stato che sono istituzioni di tutti; I partiti infatti, sono per essenza, di parte e coinvolgono solo un settore della società, anche se occorre ricordare che se i partiti sono “politici” si occupano e si rivolgono a tutta la società: si tratta dunque di definire e comprendere questi differenti livelli trovando per essi una collocazione costituzionale che renda complessivamente fisiologica la difficile attività della politica. Senza una disciplina costituzionale, il partito, grazie alle specifiche e oggettive forme ibride che assume, diventa il luogo dove si annida un potere improprio che destabilizza il sistema. In molti paesi i partiti sono diventati de facto più importanti delle istituzioni formali ma si tratta di un’importanza fragile che deve necessariamente mediare con le parti forti della società perché il sistema si basa sulla logica del consenso che favorisce la corruzione (16). La mancata costituzionalizzazione, evitata come prova della natura sociale del partito, si è rivelata il cavallo di troia della statalizzazione.
In realtà alcuni autori ( Mortati, Romano e altri) avevano proposto al tempo della costituente di considerare i partiti organi di rilevanza costituzionale, sottoponendoli a regole stringenti, ma questa strada fu ostacolata con argomenti ad ampio tasso mistificatorio. In ogni caso la vasta gamma delle conseguenze del cumulo dei ruoli viene sistematicamente ignorata come i tre processi patologici che ho illustrato più sopra. La politicità sociale può e deve essere sviluppata da una legge di struttura fine, possibilmente costituzionale, che impedisca alle persone fisiche che si candidano, di cumulare due ruoli così diversi. C’è un modello fisiologico da realizzare, ben diverso da quello in vigore.
In esso il partito è organo con funzione costituzionale (come disse Mortati che è ben diverso dall’essere un organo costituzionale: questa differenza ricalca la differenza oggettiva delle forme che sono coinvolte) che resta sempre un ente medio, si presenta alle elezioni e attua procedure democratiche per selezionare persone fisiche che, entrando nelle istituzioni di tutti, diventano per un tempo stabilito (ma non per sempre) i governanti di tutti. Nel momento in cui i candidati proposti dal partito vengono eletti, il loro lavoro si svolge esclusivamente nella sede istituzionale e ogni incarico o responsabilità partitica cessa del tutto. Sarà una legge a regolamentare questi processi, una legge che non esiste in Italia e in nessuna parte del mondo occidentale, una legge che riconosca la natura particolare dei partiti e la loro ampia libertà ma senza farli diventare pezzi di stato. Questa legge che sarà una legge sulla rappresentanza, non potrà eludere i limiti dei mandati istituzionali senza i quali sarà impossibile eliminare il professionismo politico. Questa legge potrebbe adottare il motto: più professionalità meno professionismo.
Dunque un ministro, il sindaco di una grande città o un parlamentare devono svolgere il loro lavoro senza avere ruoli partitici e porsi sotto il giudizio e il controllo della società civile organizzata nei partiti che devono essere reali enti medi. Chi entra nelle istituzioni dello stato rappresenta tutti perché le sue decisioni valgono per tutti e non può, nello stesso tempo, rappresentare una parte, cioè un partito. L’obiezione secondo cui un eletto ha comunque un partito di provenienza indica una concezione involuta della politica, che non tiene conto delle forme oggettive e delle inesorabili conseguenze legate al doppio ruolo. Ogni eletto deve avere un programma, una visione e anche un partito di riferimento e deve perseguire le proprie idee che in una democrazia non possono che essere molteplici e variegate: non importa se il tal ministro o il tal presidente ha idee differenti da quelle mie, la cosa importante è che svolga il suo lavoro istituzionale con senso politico senza avere, nello stesso tempo, una posizione da gestire e difendere dentro il partito assieme all’ ossessione del consenso che è funzionale ad una presenza nelle istituzioni a tempo indeterminato, perché queste preoccupazioni innescano una serie di conseguenze deleterie sul lavoro istituzionale togliendo libertà, efficacia e funzionalità all’istituzione stessa. La legge dunque deve disciplinare i partiti e i loro ruoli apicali al fine di favorire e sviluppare una politicità sociale, cioè la materia prima della democrazia che scarseggia in tutto il mondo. In altre parole, è interesse della collettività che un ente medio sia diretto da persone che non occupino cariche politiche perché in tal caso la medietà viene dissolta.
Il modello qui esposto rende coerente il sistema politico a trazione democratica e potrebbe contribuire a riavvicinare la società civile alle istituzioni.

4- La riforma dei partiti è condizione necessaria ma non sufficiente
Sebbene la riforma strutturale del partito (e quindi la sua costituzionalizzazione) sia decisiva per lo sviluppo di una politicità sociale non si tratta dell’unico fattore necessario per creare supporti concreti per questo tipo di politicità: l’ingegneria istituzionale non risolve tutto! Senza il coinvolgimento della scuola e della stampa nella preparazione politica dei cittadini non si potrà raggiungere il livello che garantisce il buon funzionamento del sistema. Nelle pagine precedenti ho auspicato l’avvento di partiti che recuperino in toto la loro “politicità” ma tutto resterebbe asfittico senza il concorso di un’alfabetizzazione della cittadinanza fornita dalla scuola e dall’informazione. Non sto inseguendo un’utopia da anima bella! L’azione politica, per la sua complessità, non potrà mai interessare e coinvolgere tutta la popolazione. Questo è un dato realistico che deve essere acquisito perché conforme alla nostra struttura antropologica, tuttavia è decisiva la percentuale di coloro che si interessano alla società con ampiezza di vedute lungo lo spazio e il tempo, cioè con visione politica. Aumentare il numero di queste persone è vitale per la politica perché essa ha bisogno di essere arricchita da risorse umane che stanno fuori dall’area istituzionale. Tali risorse oggi sono emarginate dalle forme in vigore che nei fatti ostacolano la partecipazione della cittadinanza. In tutti i paesi occidentali, la frazione di popolazione capace di avere visioni politiche è troppo esigua ma come abbiamo visto è abnormemente “professionalizzata” cioè concentrata solo in una parte dello spettro sociale e caratterizzata da una forte tendenza autoriproduttiva che crea l’area separata del ceto politico all’interno di una società. Lo sviluppo di una politicità sociale tra cittadini di ogni professione è una condizione necessaria per un sistema democratico e per aumentare quella frazione di popolazione capace e disponibile per comportamenti politici. E’ necessario per questo che la scuola e la stampa aiutino a pensare politicamente che significa pensare per tutti senza esibire le granitiche verità (17) che portano le persone fuori dalla politica esattamente nell’area sacrale da cui siamo fortunatamente usciti. Non affronto qui il tema dei programmi scolastici di educazione politica che non esistono da nessuna parte, perché il discorso sarebbe lungo, cito solo la stampa dicendo che è necessaria un’informazione pubblica e plurima con professionisti di varie tendenze resi liberi con il sorteggio in modo che non debbano rendere conto a nessuno (18). A questi professionisti verrà affidato il compito, tutt’altro che facile, di fornire un’informazione ricca e credibile a spese di tutti i cittadini perché avere una informazione libera e plurima serve all’intera società. Il complesso di queste riforme è ampio e difficile ma sarà la grande opera che le prossime generazioni metteranno in campo se si svilupperà una chiara coscienza di questi problemi.
Finisco dicendo che il rinnovamento del sistema politico si imporrà prima o poi perché le forme in vigore produrranno, a causa delle interne patologie, momenti critici di differente gravità in tempi non prevedibili. Ho indicato grosso modo le tre aree che devono interessare le riforme: il partito, la scuola e la stampa. Saranno coloro che sono adesso piccoli a dovere fare queste riforme fronteggiando i problemi che emergeranno, ma chi oggi è adulto può preparare la strada attraverso uno studio critico dei sistemi vigenti e la diffusione della relativa consapevolezza.

NOTE
(1) Lascio come intuitiva l’importanza della “politicità sociale” che può consentire alla politica di utilizzare le energie della società civile in misura ben maggiore di quanto accada oggi. La tesi di fondo è che una politicità sociale adeguata e costituzionalmente garantita, diventa essenziale per i sistemi politici.
(2) La politicità espressa dalle istituzioni pubbliche è di natura prescrittiva o imperativa ed è ben diversa dalla politicità sociale la quale in modo grossolano e inadeguato è stata storicamente identificata ora con l’opinione pubblica ora con la mera esistenza dei sistemi elettorali.
(3) Anche se non posso sviluppare un discorso sull’aristotelismo faccio notare che con l’affermazione che l’uomo è “animale politico” Aristotele condanna la politica ad essere sempre presente nella società, cosa che dobbiamo negare. Le conseguenze dell’aristotelismo politico, che è culturalmente incorporato nelle mente degli occidentali, sono numerose e rilevanti.
(4) L’autore che per primo pose e propose la distinzione è lo scozzese A.Ferguson
(5) Questo meccanismo nei paesi totalitari produce il doppio stato dove l’unico partito prende il controllo di tutta la macchina statale e con essa si identifica. Si tratta della situazione estrema rispetto a quella dei paesi occidentali dove esiste il pluralismo partitico ma anche in questi ultimi l’identificazione di stato e partito avviene nella forma pluralizzata di una consociazione più ampia e dialettizzata. In altre parole anche i paesi occidentali identificate con le democrazia più evolute si pongono in una zona non fisiologica dello spettro politico.
(6) Questo passaggio non è accompagnato dalla consapevolezza critica della differenza di livello: le istituzioni dello stato non sono pluralizzate come i partiti ma sono unitarie secondo le varie costituzioni, sono dunque strumenti unici di tutti e per tutti i cittadini. La dialettica partitica cessa quando si entra nelle istituzioni ma si portano avanti i progetti (facenti parte del programma originario del partito) tenendo conto della nuova situazione in cui la persona fisica, ora eletta, si viene a trovare. Anche se questa situazione appare inapplicabile rispetto al parlamento (dove la dialettica è ammessa) a mio avviso coinvolge anche il parlamento. Di sicuro riguarda pienamente il governo.
(7) In questo caso la difficoltà delle persone di cogliere il cambiamento di forma cui sono andati incontro consiste nel fatto che una persona fisica resta sempre un individuo con radici nella società senza cogliere che la forma politica che va a dirigere lo pone in un livello diverso perché si riferisce a tutta la società e non solo all’ambito dei suoi elettori.
(8) Esiste anche la difficoltà pratica di cumulare funzioni così impegnative. In generale la priorità resta quella del partito ma la questione delle difficoltà pratiche del cumulo non sono rilevanti perché il problema non è questo ma la dissoluzione della politicità sociale
(9) Confondendo professionismo e professionalità si dà per scontato che per realizzare la seconda occorre che ci sia il primo. Cosa smentita dai fatti, specialmente in Italia dove i politici di professione hanno dovuto molte volte cedere il campo a non professionisti politici come Ciampi, Monti, Conte, Draghi ecc. segno tangibile di un’incapacità di gestione del sistema.
(10) Luigi Ferrajoli è il solo intellettuale che nei suoi ultimi libri stabilisce la necessità della differenza tra il ruolo partitico e quello statale.(Vedi “la costruzione della democrazia” Laterza 2020)
(11) La disfunzionalità istituzionale può avere un numero enorme di fattori contingenti ma se essa è sistemica perché radicata strutturalmente la bassa produttività istituzionale diventa la normalità a cui i cittadini si abitueranno. Il cattivo funzionamento delle istituzioni viene percepito e vissuto come un destino.
(12) Hirschmann e l’autore che ha analizzato il distacco dal cittadino dalle istituzioni. Un primo obiettivo politico sarebbe quello di non creare un ceto cosa che può realizzarsi con due importanti pratiche:i limiti dei mandati e il ritorno alla vita civile.
(13) P. Maier ha scritto pagine importanti sulla consociazione dei partiti a tutte le latitudini
(14) Naturalmente nelle società dove non esistono i partiti la situazione è ancora peggiore perché il potere è detenuto senza mediazioni e non è soggetto ad alcuna limitazione
(15) In questo processo c’è da considerare la nascita concreta del partito come parto non voluto. Il partito infatti è stato escluso dalle grandi dottrine politiche che non lo contemplavano e quindi quando è nato non aveva legittimazione teorica e la sua medietà non è comparsa come valore.
(16) Sarebbe folle sostenere che esiste un sistema politico capace di eliminare la corruzione che resterà sempre una possibilità ma altra cosa è consentire l’esistenza di una forma che la favorisca come succede con la ricerca ossessiva del consenso.
(17) E’ inquietante vedere in questi anni che in paesi come l’Italia e gli Usa nascano giornali e social con il nome “verità”, Sembra che l’esempio storico della Pravda in Russia non abbia insegnato nulla.
(18) L’esempio negativo di una stampa non libera che deve rendere conto è quello della rai che sebbene sia ben strutturata in tre differenti reti obbedisce ad una commissione parlamentare di vigilanza dove i partiti miseramente osservano quanti secondi un leader ha avuto rispetto ad un altro.

 

(*) Pino Polistena - Milano
Preside, studioso di filosofia con particolare attenzione alle forme della politica, ex coordinatore nazionale dei verdi, tra i fondatori di Centro Studi Forme & Riforme

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